VANITY FAIR
«Ho perso la libertà, ma non sono un perdente». Le canzoni dei giovani detenuti di Bologna
Le canzoni di Leporello, il progetto che porta la musica all'interno dell'Istituto Penale Minorile di Bologna, tra i ragazzi reclusi. Li abbiamo incontrati
di Alessia Arcolaci
«Scusa mamma per il dramma, è solo una condanna. Siamo forti più di un’arma». L’Istituto Penale Minorile di Bologna è nel centro della città. Tra gli edifici abitati del quartiere, bar, negozi e portici, si apre un cancello dietro il quale vivono i minori detenuti.
Ed è probabilmente guardando le luci nelle case degli altri che Mohammed, Ahmed, Josef, Stefano (nomi di fantasia) hanno scritto le parole dei brani realizzati grazie al laboratorio di musicoterapia e songwriting Le canzoni di Leporello svolto dall‘Associazione Mozart 14, fondata dal Maestro Claudio Abbado prima della sua scomparsa e oggi diretta dalla figlia Alessandra.
Prima di varcare la soglia dell’ingresso del carcere mi viene chiesto di lasciare tutto quello che ho all’interno di una cassetta di sicurezza. Insieme a un agente attraverso il cortile, dalle finestre aperte degli ultimi piani risuona una musica rap. L’Istituto Penale Minorile di Bologna nasce all’interno di un ex convento del ‘400.
Tra I suoi lunghi corridoi stretti e le volte, compaiono antichi affreschi. Una cornice inusuale per un carcere, che somiglia più a un grande casolare abitato da fratelli di tutte le età.
«Qui abbiamo reati di tutti i tipi, violenza di genere, omicidi – ci spiega il Direttore Alfonso Paggiarino-. Cerco di offrire ai ragazzi la massima offerta di attività possibile, quello che mi spaventa di più è il non fare niente, la dispersione del tempo». L’inattività che porta alla depressione e che si trasforma in alcuni casi in autolesionismo.
L’età massima dei detenuti è 24 anni, i più piccoli sono adolescenti, quattordicenni travestiti da uomini con la sigaretta in bocca. Ne fumano una dietro l’altra, affacciati alla finestra della piccola stanza dove una volta a settimana Fabrizio Cariati e Marco Paganucci li aiutano ad esprimersi con la musica. A ritrovare con strumenti e parole la libertà persa, almeno per ora.
«La musica è terapia – spiega Fabrizio mentre Ahmad colpisce con forza i piatti della batteria con le bacchette-. Lavorare in questo contesto non è semplice, i ragazzi cambiano spesso. C’è chi non si vede per mesi, chi esce per un permesso, chi viene trasferito». E non sempre è facile captare i loro stati d’animo. «C’è anche chi arriva e non dice una parola – continua Marco – . Chi arriva e sta tutto il tempo a guardare il vetro della finestra. Soprattutto quando abbiamo iniziato a scrivere i testi mi è capitato di vedere qualcuno asciugarsi una lacrima e uscire dalla stanza a testa bassa».
Nella stanza che ci ospita durante le due ore di laboratorio i ragazzi entrano ed escono. Ahmed si mette al basso, Josef prende le percussioni e fa partire un ritmo che parla di terre lontane, quelle in cui la maggior parte dei detenuti sono nati: Marocco, Tunisia, Egitto, Libia. Ma anche Italia.
Mohammed è «il veterano», quello che conoscono tutti, va fuori e dentro a periodi alterni. «Tra una settimana ho finito, dopo ci vediamo in piazza», dice rivolgendosi ai suoi compagni. È lui a intonare uno dei brani scritti pochi mesi prima, Andiamo Avanti.
«Sono poche le cose davvero importanti/apprezzare la vita trattarla con i guanti/un pensiero va agli amici che ora sono distanti/Andiamo Avanti, andiamo avanti».
E ancora: «E per restare in piedi mi spacco anche le ossa, se torno indietro è solo perché prendo la rincorsa».
Non è possibile parlare direttamente con i ragazzi reclusi ma i loro corpi raccontano di loro. Quasi tutti hanno tatuaggi fatti artigianalmente, alcuni hanno inciso il nome di una donna, la mamma o la fidanzata che li aspetta a casa, altri una data importante, altri ancora un diamante, prezioso come i sogni a cui non vogliono rinunciare. «Non pensate che siamo differenti/abbiamo il cuore bianco più dei diamanti», grida il testo del
brano Diamanti. «Chiusi dentro questa stanza senza libertà/quando esco di qua, cambio dignità».
Uscire significa ricominciare, dalle cose semplici. «Trovare un lavoro, non tornare per strada – spiega il Direttore Paggiarino -. Anche per questo dentro al carcere i ragazzi imparano a fare le attività più svariate: dalla cucina alla verniciatura delle pareti».
C’è anche chi a casa ha un bambino ad aspettarlo. «I reclusi – continua Paggiarino, che veste i panni del Direttore come quelli di un padre putativo di tutti i detenuti- vengono a parlare con me ogni giorno, io li ascolto, mi raccontano le problematiche che hanno e cerco di limitare le liti interne. Ieri un ragazzo, che è un padre di famiglia, mi ha chiesto una scatola di cioccolatini da regalare alla sua fidanzata e alla loro bambina. Li tengo qui, quando verrà a farle visita glieli consegno».